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Sutta i Novanta

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Quando eravamo “ragazzini delle medie”, le mamme ci davano trenta lire al giorno,che servivano per comprare una piccola colazione: quasi sempre un panino con panelle o comunque ciò che oggi, pur non avendo un’accezione negativa, viene definito cibo di strada.
Anche mia madre mi dava la “benedetta paghetta”ed io, regolarmente, me la giocavo quasi tutta, con i compagni, al “bigliardino”, luogo in cui c’era più fumo di sigaretta che ossigeno, oppure ai primi flippers, antesignani degli attuali giochi elettronici.
Negli anni cinquanta gli spazi antistanti le scuole pullulavano di improvvisate bancarelle, che vendevano un po’ di tutto. Apriva la fila la bancarella “casino”, gestita da due compari che “esercitavano” il “gioco delle tre carte”.
“L’asso vince l’asso perde, dov’è l’asso”? Con grande abilità e velocità, facevano in modo che l’asso “non l’indovinavi mai”.
Seguiva il panellaro , il venditore di sanguinaccio e di buccellato,sorta di farinaccio con una misteriosa farcia scura e sdegnosamente zuccherata; il venditore di mele “incilippate”, che erano piccole mele calate nel caramello e provviste di uno stecchino infilzato, per la presa.
Su tutti trionfava il venditore di iris e di cartocci, che s’era inventata una sorta di lotteria abbinata ai generi da lui trattati.
Il “titolare” aveva un sacchetto con i numeri della tombola e pagando dieci lire, potevi “prendere” tre numeri ,la cui somma doveva risultare inferiore a novanta; in tal caso “vincevi” l’iris o il cartoccio.
Già allora le probabilità mi sembravano molto sbilanciate, non certo a mio favore, tuttavia, quando riuscivo a distrarre dieci lire dal “bigliardino”, partecipavo alla “lotteria” e se ero “fortunato” , mangiavo.
Non riesco più a ricordare, quante e quante volte rimasi senza colazione.

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